4 Apr 2022, 15:31 | Attualità | Scritto da : Reporter

Corrado Sevardi ricorda l’intellettuale scomparso nei giorni scorsi all’età di 83 anni
Non so da dove cominciare, né dove andare a parare. Dubito di avere la forza e competenza in questo momento per tracciare un ricordo che renda merito appieno a una persona che negli anni è stata per me cruciale, lungo il declinarsi per decenni del rapporto affettivo che ci ha legato, nei risvolti cangianti e compresenti dell’amicale, del fraterno, del paterno, del lavoro insieme, tutti germinati sul terreno delle condivise passioni.
Ludovico Parenti. Ludovico. “Vico”.
Quella mattina di un giorno di settembre del 1989, quando giovincello entrai nell’ufficio stampa del Teatro Municipale, per sedermi in una scrivania di fianco alla sua dove sarei rimasto per sei anni, sentii subito, di primo acchito, l’imporsi naturalissimo di un’empatia che ci avrebbe unito per sempre.
Non poteva essere altrimenti; Vico era una persona che si faceva interprete di doti relazionali, umane folgoranti, dal primo momento in cui lo incontravi; di pirotecnica drammaturgia dell’essere. Vico teatralizzava l’interazione, in un attimo ti prendeva e ti portava con sé sul palcoscenico di un dialogo libero da ogni pastoia e ambiguità del reale, in consonanza con il pensiero eduardiano “In teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione, poiché Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male”.
Ne nasceva una totale assenza di barriere e specchi, di quinte e maschere posticce. Avere a che fare con Vico significava godere del privilegio che ti offriva di poter interpretare te stesso, di “essere” i tuoi veri personaggi interiori, una sorta di immediata “individuazione” del sé junghiana. Nella conversazione più banale, come nei dialoghi più pregnanti. Verità. Vico era la “verità” e la suscitava intorno a sé. Nei suoi sentimenti umani, radiosi, delicati, come nelle sue incazzature.
Le sue passioni e competenze spaziavano enciclopediche e rinascimentali nelle sconfinate praterie dell’universalità dell’arte, della cultura letteraria, della musica di ogni tempo. La sua casa è una biblioteca nella quale ci si chiede come possano i pavimenti resistere al peso di quella quantità di volumi, di dischi in vinile, di cd e dvd, di oggetti, quadri alle pareti, ritagli di giornali, scatoloni, faldoni fra i quali si deve sgusciare per muoversi, mentre l’occhio cade su ogni cosa in uno stordimento inebriato di voracità affascinata e orgasmica.
La sua voce impostata, attoriale, ti cullava di immagini, suggestioni mentre lo lasciavi semplicemente parlare, divagare, per poterlo ascoltare, ma il suo non era un eloquio autocelebrativo, esibitivo, compiaciuto di sé. Di continuo anzi, circolarmente, arrivava a interpellarti, a sollecitarti, attraendoti nelle campiture dei suoi ragionamenti e a sua volta stava lì ad ascoltarti, se volevi, ti lasciava andare a ruota libera. Vico ti chiedeva sempre il tuo parere, si informava, condivideva le proprie perplessità, i dubbi, le incertezze. Vico era ancora una persona capace di incertezze, libera da quell’assillo imperante nell’oggi dell’assertività pettoruta; sapeva cercare nelle cose le sfumature di senso come nelle stilizzazioni di un quadro di Giotto. Si emozionava per la musica antica come per Brahms o Bernstein; sapeva tutto di Pasolini, di Totò e di schiere di figure dell’arte e della letteratura e musica e poesia e teatro e cinema, e, e, e… Interagire con Vico era un continuo “e”: mentre stavi su una cosa, già nel suo modo aperto e sensibile di porgere, di portarti come in un’escursione fra sentieri, boschi, paesaggi e suoni della natura e dell’anima, ogni spunto presupponeva il potenziale fluire di infiniti sviluppi altri. I rivoli della sua parola diventavano ruscelli, poi fiumi, poi tempeste nel mare. Era enzimatico, generava entusiasmo, mentre lo ascoltavi cominciavi a pensare “dài che poi potremmo parlare anche di questo, poi di quello, e Bach dove lo metti Vico? Ma ti rendi conto che quel quadro del Tiarini una volta era a Reggio? Ma Gozzano e la Gelminetti?”. E lui ti stupiva, caustico seppur di modi delicatissimi e da gentiluomo d’altri tempi: «Dài, Mina è insopportabile quando muove quelle sue mani così… e Chopin? Con tutti quei biribiribì? Preferisco Gesualdo!».
Vico che scherzo mi hai fatto, dovevamo sentirci per andarci a prendere una pizza e invece l’altra sera mi sono accasciato sul tavolo di cucina a piangere come un bambino. Come faccio Vico a chiudere questo ricordo? Come posso senza dire le altre centosettemila cose che si dovrebbero ricordare di te, dei tuoi testi drammaturgici, delle tue poesie, della tua critica teatrale, della saggistica d’arte, delle tue passioni, della tua famiglia, delle tue risate, delle serate passate a sentirti recitare le tue cose per pochi intimi, fra un erbazzone e un bicchiere di lambrusco, mentre ci portavi in giro per le solarità delle tue visioni arcadiche, delle carnalità di personaggi scolpiti come divinità greche, delle sinestesie di un mondo mediterraneo espresso nelle sue regioni psichiche più ataviche ed esotiche, della napoletanità prorompente, dei riferimenti cólti e di quelli popolari, della tua sacralità pagana, laica e religiosa al contempo, scevra da dogmi e sovrastrutture, del tuo umanesimo, di quel tuo sguardo civile sulle cose, di quella tua infinita… gentilezza.